C’è chi si vuole omologare e chi decide di essere diverso per forza. La verità è che siamo tutti diversi ed è lì che sta la nostra vera ricchezza.
Il libro La bambina sul soffitto parla di normalità e stranezze: come si intuisce dal titolo, la forza di gravità viene sfidata e per questo il mondo rappresentato si divide tra coloro che trasgrediscono e coloro che fanno rispettare le leggi. Le avventure di Imke e Nadeema, le due protagoniste e trasgressore, accompagnano il lettore in un viaggio alla ricerca della normalità perduta, che però, come si scoprirà, non è più recuperabile.
Diversità dimenticata
Imke è una brava bambina normale, talmente normale che la maggior parte delle volte risulta essere invisibile: non dice né fa mai niente fuori posto. Ma Imke un giorno si ritrova a cadere sul soffitto: qui inizia il suo percorso, che farà scoprire a lei e a noi lettori quanta normalità c’è nella diversità.
Diversità che viene spesso osteggiata, maltrattata, nascosta e anche temuta: come ci dice il libro, “gli adulti sanno che il modo migliore per affrontare le cose strane è fare finta che non ci siano. Fingere che sia tutto normale”. La diversità mina all’equilibrio di un sistema perfetto, omologato, in cui le regole vanno rispettate per garantire la serenità di tutti, ma soprattutto di chi governa.
Per funzionare ci dobbiamo omologare?
Spesso facciamo fatica ad attribuire alla diversità e alle cosiddette “stranezze” il valore aggiunto che possono rappresentare. Forse questo accade perché si teme nel profondo di essere diversi e si teme ciò che è diverso: questa percezione ci blocca, portandoci all’omologazione e impedendoci invece di sviluppare i nostri singolari punti di forza e talenti.
Ma in un sistema, c’è davvero bisogno di un’omologazione radicale per funzionare? Il libro fa riflettere su questa questione: alcune norme sono necessarie per esistere come comunità di individui, ma al tempo stesso è necessario che tutti i comportamenti diversi vengano eliminati o repressi? La diversità ci può insegnare molto, a volte forse anche salvare la vita – se osserviamo ad esempio l’evoluzione di alcune specie animali che grazie a comportamenti “devianti” si sono invece adattate meglio alle nuove condizioni ambientali.
La scuola
Il discorso è molto ampio e interessa già le nostre prime esperienze di vita, come la scuola, che spesso non riesce a percepire le singolarità di ogni bambino come punto di forza. Ma non sarebbe bellissima una scuola in cui ognuno riesca ad esprimere se stesso nel modo più vero? Spesso si trascurano la creatività, l’intelligenza emotiva e le attività non strettamente nozionistiche, a discapito delle inclinazioni naturali e spesso nascoste.
Il problema si radica poi nei metodi di insegnamento: è importantissimo riconoscere che ogni bambino apprende in modo diverso, attraverso diversi canali, ma spesso siamo abituati alle lezioni frontali e alla poca interazione e collaborazione. Ma molti studi dimostrano invece che c’è chi apprende meglio attraverso il canale visivo o uditivo o meglio ancora attraverso la pratica.
Il capro espiatorio
Molto, forse troppo spesso, succede poi che la diversità venga utilizzata come catalizzatore di tutte le paure e i timori di una comunità: sarà sicuramente nel diverso la colpa e sicuramente alla devianza andrà assegnato qualche significato, il più delle volte negativo.
Forse sta proprio qui il problema: alla diversità si attribuisce un significato, quando invece si potrebbe semplicemente accettare che, come esseri umani, siamo uguali su una certa gamma di elementi, ma al tempo stesso ognuno è stato creato con diverse sfumature e sfaccettature.
La paura del giudizio
Ma proprio per il fatto che molto spesso in quanto diversi si viene presi come capro espiatorio, nasce una paura del giudizio e delle conseguenze: uno dei fattori principali per cui Imke viene cresciuta come una brava bambina, e quindi normale, omologata, è proprio la paura delle prese in giro, dei rimproveri e dei giudizi da parte di chi le sta intorno.
Il mondo immaginario di Imke non è molto diverso dal nostro: per integrarsi è necessario adattarsi a una serie di schemi precisi – “le femminucce comprano (…) bambole e i maschietti comprano palloni. La vita è tornata ad essere semplice” – e c’è un canone perfetto per ogni cosa. Tutto ciò che è al di fuori turba l’equilibrio e deve essere eliminato, altrimenti sarà deriso o peggio.
Essere normali o essere se stessi?
Spesso, quindi, cerchiamo di essere normali (omologati) tanto da dimenticarci com’è invece essere noi stessi. Ma davvero essere normali – nel senso di essere perfettamente in linea con quello che la società e le norme culturali ci impongono – ci renderà felici e ci permetterà di vivere una vita gratificante?
La risposta si può trovare in esempi che abbiamo sotto i nostri occhi tutti i giorni: può capitare che il concetto di “normale” della società sia un’interpretazione dannosa di alcuni argomenti. Basti vedere come l’idea di salute fisica sia stata completamente stravolta attraverso rappresentazioni mediatiche di corpi tutti uguali, eccessivamente magri o eccessivamente palestrati, che hanno portato non pochi problemi a livello di disturbi alimentari nei ragazzi e nei giovani adulti.
Una nota positiva
Fortunatamente, non esistono solo notizie negative. Soprattutto negli ultimi anni, gli standard imposti dalla società sono stati e sono messi in discussione, per la ricerca di un dibattito che apra le porte alle varie “stranezze” e differenze.
Si può sperare che in futuro il concetto di “normalità” non sia sinonimo di omologazione, ma venga rivalutato, ampliato, reso più flessibile, a vantaggio di un insieme di persone più amorevoli e inclini a trovare nelle differenze dei punti di forza e di crescita.
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